Le mura di levante, dal bastione estremo dello Sperone, degradano rapidamente verso il mare seguendo la dorsale che sovrasta la Val Bisagno e mantenendo, per una distanza approssimativa di 3.500 metri, un andamento pressoché rettilineo fino alla Porta di S. Bernardino.

Dal Forte Sperone al secondo bastione di Porta S. Simone o Porta Chiappe, per una distanza di circa 1.750 metri, si passa da una quota massima di 444 metri s.l.m. (1.768 palmi genovesi dalle misure rilevate dal Brusco sul cavaliere” dello Sperone) fino a quella di 310 metri (1.242 palmi) rilevata alla garitta n° 40 prima di Porta Chiappe. La dorsale del Monte Peralto, dove la pendenza è più accentuata, è interrotta da un sistema di terrapieni trasversali fra loro collegati lungo il “ramparo” da strette scalette in lastroni di pietra; il parapetto, i muri di sostegno dei terrapieni, le scale e parte dell’antica strada militare, tutto è ancora perfettamente leggibile; questa rara conservazione del nostro patrimonio monumentale la dobbiamo in parte ai divieti d’accesso posti dall’autorità militare che ha mantenuto fino a pochi anni fa una stretta sorveglianza su tutta la zona.

Dal Forte Sperone al Castellaccio si alternano cinque bastioni molto diversi uno dall’altro nel loro sviluppo spaziale anche se mantengono nell’insieme, una uniformità di dettagli tecnici, la lunghezza dei fianchi come sempre non supera mai i 50 palmi (19 metri circa) e la larghezza del fossato antistante è piuttosto limitata (35-40 palmi rilevati dal Brusco).
Subito dopo il bastione detto delle “Forche” (l’ottavo dopo il Forte Sperone) “all’estremità della successiva cortina” si apre il primo dei portelli, la Porta delle Chiappe o di S. Simone; da questo punto, gli interventi di una edilizia sempre più in espansione si fanno via via più pressanti, con sistemazioni avulse da qualsiasi tutela monumentale o ambientale, e che finiranno presto per invadere ogni spazio disponibile, quello stesso spazio di rispetto assoluto, che il Magistrato delle Fortificazioni aveva sempre cercato di mantenere libero da qualsiasi costruzione.
Oltre la seconda Porta, quella di S. Bernardino, con a fianco la caratteristica torre ottocentesca, scendendo verso le mura dello Zerbino, una brutta e pesante edilizia sembra prendere sempre più il sopravvento in torno agli spalti delle mura fino a giungere ai miseri resti dei bastioni di Montesano, ultimi ed estremi tronconi delle Nuove Mura, dove una cortina diventa addirittura un vero e proprio muro d’intercapedine letteralmente inghiottita da un caseggiato, mentre l’antico e possente rivellino dei tempi del Codeviola, ha finito per diventare muro di sostegno per un giardinetto privato.
In quest’ultimo tratto esistono pertanto punti ancora suggestivi e leggibili delle fortificazioni; iniziando la discesa dalla Porta S. Bernardino le mura si dirigono verso Levante fino all’angolo retto del bastione “Lavagna”, digradando a ripiani e seguendo le rampe di tre lunghe scale in pietra, mentre la strada interna, una via che segue il tracciato dell’antica via militare, oltrepassando l’archivolto di Salita Multedo, raggiunge con una discesa a rompicollo, l’incrocio della nuova Via Carso. Da questo punto hanno inizio, nuovamente con direzione nord-sud, i resti delle mura di S. Bartolomeo e quelli dello Zerbino.
Quest’ultimo possente arco di cortine e di baluardi, che meno di un secolo fa, si ergeva nitido al di sopra delle case del Borgo Incrociati, oggi si fa strada tra i caseggiati di Corso Monte Grappa, mutilato ovunque da una sistemazione urbana che lo ha considerato più come un ostacolo fastidioso e ingombrante da superare che come un’opera architettonica da conservare o per lo meno da valorizzare in un ambiente di intensa espansione edilizia.
I bastioni che via via si succedono scendendo dal Castello Mackenzie verso Montesano (quello detto del “Camposanto” fino agli ultimi resti del bastione del Baraccone) sono come inghiottiti dalle case; si indovinano qua e là, ora al di sopra di un campo da bocce, ora nello spazio libero tra due edifici, fino a scomparire, nel senso vero che si dà a questa parola, nell’interno di uno dei nuovi caseggiati del quartiere dello Zerbino. Le mura di Montesano e le celebri “Fronti basse” del Bisagno che andavano a raggiungere la cinta cinquecentesca alle Cappuccine non esistono ormai più se non nel ricordo di vecchie fotografie dell’ottocento, demolite le prime, per far posto allo scalo ferroviario di Brignole e le seconde, alla vasta sistemazione urbanistica tra l’attuale Piazza Verdi e Piazza della Vittoria.
Il rapporto tra le masse architettoniche delle mura che si stagliano nitide in un paesaggio naturale aspro e dove contendono con le stesse pietre di cui sono fatte una loro semantica di potenza e di aggressività selvaggia, e quelle mura invece che diventano parte di un arredamento urbano, il più delle volte un accidente da superare, un ingombro inutile nello sviluppo disordinato delle case e dove, in questo continuo confronto con una edilizia inqualificata, non riusciamo più a riconoscere alcun valore spaziale, ci spinge ad una necessaria spiegazione sulla validità di un attributo estetico che è lecito o no dare alla cerchia seicentesca, prescindendo da quel valore di testimonianza storica che nessuno gli può contestare.
E certo che la dove i bastioni, non più legati tra di loro, a volte non più distinguibili da un qualsiasi muro di sostegno, diventano frammenti archeologici, pezzi di un discorso che non possiamo più riconoscere altro che per mezzo di una indagine grafica e storica, il valore spaziale scade, si impoverisce ed al massimo rimarrà solo in alcuni casi come ad esempio tutto il tratto da Via Carso alla Porta di S. Bernardino un quadro architettonico frammentario fatto di scorci apprezzabili, da punti di vista sempre più ristretti creati in maniera casuale dalla sistemazione urbana di quel luogo.
Per di più, sia l’assenza di un Piano Regolatore Particolareggiato, che la relativa facilità con la quale si raggiunge il Righi da un lato e la borgata di Granarolo dall’altro, favoriscono la crescita di una edilizia insignificante e di conseguenza l’impoverimento di quei valori ancora ieri presenti nella massima parte della cerchia e in particolare spezzando la continuità delle masse architettoniche, indispensabile per una lettura di un’opera e che traeva dalla sequenza ininterrotta dei bastioni e delle cortine una sua precisa semantica.
Come pure, se si deve parlare di visione architettonica unitaria delle mura, si deve necessariamente includere il fattore di movimento. Ogni effetto spaziale è in funzione di questo movimento, sia che questo avvenga all’interno, lungo la via panoramica che ricalca la strada militare, dove movimento e spazio sono inscindibili, sia quando il movimento avviene all’esterno, lungo i resti della via coperta o in lontananza, lungo le colline intorno alla città oppure da quel nuovo punto di vista che è il tratto di autostrada da Bolzaneto alla Val Bisagno.
In questo caso, l’avvicinarsi prospettico del fronte compatto, chiuso dai bastioni, si interseca col movimento di ascesa della linea delle mura culminante nella massa di ombre e luci del Forte Sperone, in un effetto di tempo-spazio fortemente espressivo.
Per contro, ad un navigatore dell’ottocento, le fortificazioni apparivano, nel suo giungere dal mare, in una loro imponente fissità; egli poteva abbracciare con un solo sguardo, un quadro panoramico ancora intatto, vedere una linea ininterrotta di cortine e baluardi, lungo i quali emergevano le masse articolate dei forti in un insieme che doveva ispirare potenza e nello stesso tempo un sentimento di pace e di sicurezza per la città che si raggruppava tutta ai suoi piedi.
È una sensazione che possiamo ancora intuire oggi, solo percorrendo alcuni tratti della via panoramica che costeggia la cinta.
Le forme massicce ed essenziali dei baluardi ci appaiono come un emblema di forza e potenza primordiale; dando poi uno sguardo alla città che si stende lontana e immobile oltre la valle del Lagaccio, sentiamo che quell’ampio arco di mura è lì come per proteggerla, avvertendo nel rapporto tra la città e la sua cerchia un legame non ancora spento, come se, venendo a mancare la loro primitiva funzione, le mura avessero assunto per Genova un profondo significato simbolico.
La “cerchia” del 1632, come opera d’architettura militare, era perfettamente coerente con tutto l’insegnamento del ‘500 italiano. Nelle sue forme, nella sua struttura, nelle sue finalità simboliche e ideali essa rimane ancora un’opera del Rinascimento, legata com’è alla conoscenza della natura, realizzata lungo dossi e valli sassose, utilizzando metodi e procedimenti di una scienza pratica, aderente ad un unico disegno unitario oggi ricostruibile solo mentalmente nel movimento ininterrotto dei suoi salienti, ottusi e massicci, che salgono all’unisono ai due lati geografici della città e che s’incontrano nello Sperone, acuto come un coltello della vetta del Monte Peralto.
(Tratto da “Le Fortificazioni di Genova” di Leone Carlo Forti)